La “Proporzione di parti con taglio cesareo primario” è un indicatore che può essere utilizzato per valutare la qualità dell’assistenza fornita alle partorienti.
Gli ospedali e i sistemi sanitari sono spesso confrontati sulla base di questo indicatore, dal momento che valori più bassi possono riflettere una pratica clinica più appropriata e che una parte dei tagli cesarei potrebbe essere eseguita per “ragioni non mediche”. I dati mostrano una lieve riduzione della proporzione di parti con taglio cesareo primario in Italia a partire dal 2015 (25%) fino al 2021 (22%).
Il Decreto del Ministero della Salute 2 aprile 2015 n. 70 sugli standard relativi all’assistenza ospedaliera riporta una soglia massima della proporzione di tagli cesarei primari che varia in base alla tipologia di struttura di ricovero, ma che comunque non deve superare il 25%.
Il confronto tra ospedali potrebbe comunque essere distorto se non si tenesse conto della possibile diversa distribuzione dei fattori di rischio per cesareo delle pazienti tra le diverse strutture: il taglio cesareo è infatti indicato in molte situazioni cliniche, come, ad esempio, complicanze a carico della placenta o del cordone, distress fetale, infezione da HIV, sproporzione feto-pelvica; inoltre differenze socio-demografiche o nella disponibilità dei servizi per le gravidanze ad alto rischio aumentano la probabilità di un cesareo.
L’indicatore dei parti con taglio cesareo primario è calcolato come proporzione di primo parto con taglio cesareo di una donna. Dal momento che le donne con pregresso parto cesareo hanno una probabilità minore di partorire mediante parto naturale, è stato calcolato separatamente l’indicatore “Proporzione di parti vaginali in donne con pregresso parto cesareo”. Quest’ultimo consente di misurare i parti vaginali eseguiti in una struttura ospedaliera nelle donne che hanno partorito in precedenza con un parto cesareo. I dati mostrano una proporzione di parti naturali dopo pregresso cesareo intorno al 10,5% negli anni dal 2018 al 2021.
L’episiotomia, che consiste nell’incisione chirurgica dell’orifizio vulvo-vaginale, viene praticata per facilitare la fase espulsiva del travaglio di parto ed è un intervento eseguito spesso di routine, nonostante siano indisponibili prove della sua efficacia, sia a breve che a medio-lungo termine. Studi clinici, controllati e randomizzati, hanno dimostrato che contenere il ricorso all’episiotomia riduce l’incidenza di traumi e complicazioni dell’area perineale. La procedura non è risultata associata ai benefici attesi come la riduzione di traumi fetali alla nascita, la maggiore facilità di guarigione della ferita rispetto alle lacerazioni vaginali, la protezione del pavimento pelvico e la riduzione del dolore alla ripresa dei rapporti sessuali. È invece stato dimostrato che il ricorso all’episiotomia di routine aumenta il rischio di perdita ematica post partum, di infezione e deiscenza della ferita, di risultati estetici insoddisfacenti e di lacerazioni perineali gravi nei parti successivi. La linea guida del NICE “Intapartum care” e le linee guida dell’OMS “Intrapartum care for a positive childbirth experience” raccomandano di non praticare l’episiotomia di routine ma di ricorrervi solo in caso di necessità. Le indagini campionarie sul percorso nascita in Italia, coordinate dall’Istituto Superiore di Sanità, hanno stimato un tasso di episiotomie pari al 69% nel 2002, sceso al 45% nel 2008-09 e al 42% nel 2010-11. L’indicatore non è ancora disponibile nel CedAP nazionale ma disponiamo di alcuni dati di prevalenza regionale stimati nella Provincia Autonoma di Trento, Regione Toscana ed Emilia- Romagna che nel 2019-20 sono compresi tra il 6 e l’8%.
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